Battaglie In Sintesi
5-6 aprile 1849
Nacque il 10 maggio 1784 a Cava de' Tirreni (Salerno) da Gaetano, noto giurista illuminista, e da Caterina Frendel, nobile ungherese, chiamata a Napoli dalla regina Maria Carolina per educare la figlia secondogenita. Morto il padre nel 1788, la madre mantenne contatti con l'ambiente intellettuale e, assumendo ella stessa il ruolo di insegnante per le lettere latine, scelse per i figli valenti maestri: G. Capocasale per la filosofia, V. Caravelli e V. Porto per le scienze esatte. Ben presto tuttavia il Filangieri mostrò di preferire la carriera delle armi e la regina gli fece concedere nel 1797, mentre egli era ancora studente, il grado di ufficiale di cavalleria nel reggimento "Principe Leopoldo". La rivoluzione del 1799 non lo coinvolse in pieno, data la giovane età, ma determinò ugualmente una svolta nella sua vita. La sua partecipazione alla seduta della commissione legislativa che, per bocca di D. Cirillo e M. Pagano, aveva commemorato il padre Gaetano Filangieri, durante la prima Restaurazione fu giudicata, infatti, compromettente per la famiglia, nonostante un editto di perdono. Perciò Caterina Frendel, avvertendo un clima di ostilità, decise di mandare i figli in Spagna presso il cognato Antonio Filangieri, capitano generale delle milizie spagnole, perché proseguissero la carriera delle armi (1800). Mentre erano in viaggio, però, il sovrano spagnolo, Carlo IV, in seguito agli avvenimenti rivoluzionari, aveva vietato l'ingresso in Spagna ai Napoletani. I ragazzi si fermarono a Milano, appena divenuta capitale della Repubblica Cisalpina. Accolti entrambi con favore, in considerazione della fama del padre, vennero indirizzati in Francia con una lettera per il primo console perché vi completassero gli studi. A Parigi i due fratelli Filangieri furono ammessi al Pritaneo, l'ateneo militare francese, poi Scuola politecnica, ove il Filangieri ben presto primeggiò. Il 18 nevoso dell'anno XI (8 genn. 1803) iniziò la carriera nell'armata francese col grado di sottotenente nel 33º reggimento di fanteria, partecipando alle campagne del 1803, 1804 e 1805. Il 2 dic. 1805, alla battaglia di Austerlitz, ottenne sul campo il grado di capitano e poi, per i meriti conseguiti, il brevetto di luogotenente; nel frattempo compì alcuni brevi soggiorni a Napoli. Cessate le ostilità dopo il trattato di Presburgo del dicembre 1805, il Filangieri si dedicò a studi comparativi di carattere militare, ma fu richiamato nel Regno di Napoli dopo la conquista da parte dei Francesi nel febbraio 1806. Giunto a Napoli nel maggio, fece parte dello stato maggiore dell'esercito come capitano e fu nominato aiutante di campo del generale M. Dumas, ministro della Guerra; spedito all'assedio di Gaeta, terminato il 19 luglio, fu nominato capitano dei cavalleggeri volontari della guardia del re Giuseppe Bonaparte e, per il valore dimostrato anche nella difesa del ponte sul Garigliano, ebbe la Legion d'onore. Negli ultimi mesi del 1807 collaborò col generale J.-L. Reynier in Calabria nella campagna che proseguì fino alla conquista di Reggio.
Nell'ottobre 1807 ebbe la carica di scudiero del re e la croce di cavaliere dell'Ordine delle Due Sicilie; nel 1808 fu promosso caposquadrone dello stato maggiore dell'esercito. Nel luglio dello stesso anno, divenuto Giuseppe Bonaparte re di Spagna, accompagnò la regina Giulia a Lione. Si recò quindi a Tolosa presso Napoleone, e di lì in Spagna, aggregato all'esercito francese nella guerra contro gli insorti spagnoli. Si distinse in varie operazioni, per cui ottenne il grado di maggiore, poi di tenente colonnello e fu scelto dal maresciallo J.-B. Jourdan come sottocapo dello stato maggiore del suo corpo d'esercito. Nel novembre a Burgos sfidò ed uccise in duello il generale J.-B. Franceschi, reo di aver espresso giudizi poco lusinghieri sui Napoletani, e, dopo un ennesimo coinvolgente incontro con Napoleone, che gli rimproverò il suo carattere impulsivo ("testa di Vesuvio"), fu rimandato a Napoli. Inviato prima in Abruzzo Citra per formare la milizia provinciale, il 28 maggio 1810 raggiunse a Palmi, in Calabria, il re Gioacchino Murat, partecipò ai fatti d'arme di Maida, Bagnara e Scilla contro le cannoniere inglesi, divenne ufficiale d'ordinanza del re ed ebbe la croce di commendatore dell'Ordine delle Due Sicilie. Nel 1811 partì per la spedizione contro la Russia, ma nel 1812 fu richiamato a Napoli, minacciata dallo sbarco delle truppe anglo-sicule, di cui più volte respinse gli attacchi. Al ritorno del Murat dalla Russia nel novembre 1813 e prima del trattato austro-napoletano il Filangieri, che era stato promosso il 5 luglio maresciallo di campo, partì per l'Italia centrale come avanguardia della divisione del tenente generale M. Carrascosa; e fu stanziato prima a Ferrara, poi a Bologna, a Modena e infine presso il maresciallo austriaco H. J. Bellegarde. Durante la campagna d'Italia del 1814 visse le conseguenze dell'incerta politica murattiana, ora alleato con gli Austriaci. Dopo molti scontri sulle rive del Taro e del Mincio, ora a favore dei Napoletani ora a favore degli Italici del viceré Eugenio, il Filangieri il 24 apr. 1814 si ritirò a Bologna con la sua brigata. Il 26 il Murat lo nominò suo aiutante di campo. In maggio stazionava nelle Marche, ma poco dopo fu richiamato a Napoli per far parte del Consiglio militare del re. Dal giugno-luglio 1814 fu incaricato di numerose missioni diplomatiche al congresso di Vienna e a Parigi, quando il sovrano ancora sperava di uscire indenne dalla fase di ripristino della "legittimità" alleandosi con l'Austria. Il Filangieri dovette tuttavia constatare in entrambi i luoghi la diffidenza delle potenze europee (tranne l'Austria) e della diplomazia francese in particolare (soprattutto del Talleyrand), verso il Murat, già prima della fuga di Napoleone dall'Elba. Dopo il ritorno di Napoleone a Parigi il Murat nel marzo 1815 aprì le ostilità contro l'Austria e il Filangieri partecipò alla campagna d'Italia: il 4 aprile, durante la marcia delle truppe verso Modena. conquistò il ponte di Sant'Ambrogio sul Panaro e fu nominato sul campo tenente generale, ma, gravemente ferito, non poté più continuare la guerra. Trasportato a Napoli guarì, ma rimase claudicante alla gamba destra. In tale periodo ereditò dalla zia Teresa Filangieri, coniugata Ravaschieri Fieschi, il patrimonio in Calabria, formato dai feudi dei Ravaschieri Fieschi a cui era congiunto il titolo di principe di Satriano. Le opere relative a questa fase della vita ed al rapporto coi sovrani francesi, le stesse memorie autobiografiche, scritte in periodo borbonico, e talora nelle fasi repressive della Restaurazione, tendono o a sottolineare che, pur al servizio dei Napoleonidi, il Filangieri aveva rifiutato di prendere le armi contro i Borboni e che il suo rifiuto era stato rispettato (ma le campagne in Calabria lo avevano visto in prima linea contro gli Anglo-siculi) o comunque ad inquadrare la sua collaborazione come riflesso di una fondamentale adesione al ruolo di militare, fedele al proprio sovrano, chiunque questi fosse: atteggiamento che i suoi detrattori invece consideravano opportunista ed espressione di un'ambizione smodata. In realtà il Filangieri fu un tipico esponente della generazione "murattiana" avendo, fino al 1815, partecipato a dodici campagne, sì da divenire tenente generale. Fu perciò anche durante la vecchiaia tacciato sempre di "napoleonico" e portò nella vita politica del Regno una visione militare e amministrativa di impronta francese. In linea con la politica borbonica dell'"amalgama" inaugurata dalla seconda Restaurazione, finito il regno murattiano con il trattato di Casalanza (20 maggio 1815), venne confennato nel grado. Con la Restaurazione iniziò anche una nuova fase della vita del Filangieri in cui questi, più che sui campi di battaglia, si segnalò per le capacità diplomatiche, amministrative ed imprenditoriali. In vista di un riordinamento dell'esercito, fu infatti nominato nel 1815 componente del Consiglio di guerra, come esponente del disciolto esercito murattiano, ed elaborò un progetto basato sull'obbligo della leva, poi respinto dal re. Il Filangieri si dimise per dissensi su alcune iniziative ed il Consiglio fu sciolto nel 1816. Designato il generale austriaco L. Nugent capitano generale dell'esercito napoletano e ministro della Guerra, il Filangieri fu nominato ispettore generale della fanteria di linea. Alla inopportuna politica militare del Nugent, ispirata a criteri di risparmio e basata su disposizioni empiriche e frammentarie, il Filangieri attribuì il diffondersi della carboneria nell'esercito di cui ebbe sentore ben prima del 1820. Nel 1818 ebbe la gran croce dell'Ordine di S. Giorgio e dal maggio 1820 fu ammesso alla corte come gentiluomo di camera del re. Il 6 apr. 1820 sposò a Palermo Agata Moncada, figlia del principe di Paternò. Dopo il 2 luglio 1820, quando scoppiò la rivolta a Nola, egli rimase fedele al re e operò per il controllo dell'ordine pubblico nella capitale. Accettò nel "nonimestre" alcuni incarichi militari: il 12 luglio ebbe il comando della guardia reale, il 14 il comando della fanteria della guardia, il 17 fu posto a capo della giunta creata per depurare l'esercito dagli elementi sospetti, ma si dimise perché vi vide un intento persecutorio verso i più devoti al re. Incapace di trovare una propria collocazione, attaccato dalla stampa, il 14 agosto rinunziò a tutti gli "incarichi, gradi e impieghi militari" (Moscati, 1933, p. 37), ma le dimissioni furono respinte dal vicario generale, duca di Calabria. Conosciuto il proclama di Lubiana del 21 febbr. 1821 col quale Ferdinando I esortava i Napoletani ad accogliere gli Austriaci, che stavano per invadere il Regno, come alleati, il Filangieri sostenne che essi dovevano essere combattuti e perciò fu poi destituito.
Dopo la sconfitta del governo costituzionale il Filangieri fu esonerato dal comando della guardia reale il 27 marzo 1821, sottoposto alla giunta di scrutinio, privato di ogni grado e onorificenza con decreto 29 luglio 1821. Gli si fece accusa postuma del legame con Murat: attaccato dalla stampa, sia borbonica sia liberale, si ritirò, allora, nei suoi possedimenti calabresi, e nel bosco di Razzona, a Cardinale, fece sorgere, probabilmente nella seconda metà degli anni Venti, una piccola ferriera. Tornato a Napoli, tentò di dar vita in Calabria a varie manifatture facendo venire artigiani e materiali da altri Stati: impiantò una fabbrica di sapone, un mulino a vapore, una vetreria e nel 1837, quale azionista della Società industriale partenopea, una manifattura di tessuti di lino, cotone e canapa a Sarno: attività che fallirono ed assorbirono tutti i suoi beni, ma che indicano una certa sensibilità imprenditoriale. In quegli anni il Filangieri intervenne anche nella polemica fra protezionisti e liberisti a favore dei primi e dei grossi monopoli pubblici e privati interessati allo sviluppo di una siderurgia nazionale, indirizzando contro il liberista M. L. Rotondi, autore delle anonime Riflessioni economiche sul ferro (Napoli 1838), una Risposta alle riflessioni economiche sul ferro (ibid. 1838). Con l'avvento al trono di Ferdinando II (1830), nel clima di rinnovamento dei primi anni del regno, che comportava il recupero alla vita politica di molti ex murattiani, il Filangieri era stato richiamato a corte l'11 genn. 1831. Reintegrato nel grado di tenente generale, ricevette l'Ordine di S. Gennaro ed ebbe il compito di vagliare la possibile riammissione di ufficiali destituiti. Fece parte della Dieta dei generali, incaricata di riordinare l'esercito, e resse, fino al 1849, la direzione generale dei corpi facoltativi, artiglieria e genio. Rinnovò il collegio militare di Napoli, cui aggiunse una scuola di equitazione, favorì gli studi di storia militare, ma soprattutto si adoperò per la risoluzione dei problemi dell'artiglieria. A Castelnuovo sorse una sala di modelli di armi e nel 1845 fu pubblicato a Napoli l'Atlante del nuovo sistema di artiglieria, con 72 tavole, lavori che trovarono uno sbocco pratico nella simulazione di un assedio a Capua. Curò gli stabilimenti e le manifatture militari di armi, rimodernò le opere di difesa del Regno, rendendo inespugnabile Gaeta, migliorò fortezze, ospedali e caserme, portò a nuova vita l'ufficio topografico istituito dal Rizzi-Zannoni, fece sorgere l'arsenale, la fonderia ed altri importanti edifici militari. Favorì l'impianto dell'officina di Pietrarsa e di una scuola teorico-pratica dei macchinisti, che si rivelarono utili anche dopo l'annessione al Regno d'Italia. Allo scoppio dei moti del 1848, con la rivoluzione in Sicilia e poi a Napoli, il Filangieri fu tra coloro che spinsero Ferdinando II a concedere la costituzione del 10 febbraio. Durante le successive trattative per una lega dei principi italiani e dopo la dichiarazione di guerra all'Austria il Filangieri si offrì di guidare le due divisioni di fanteria e cavalleria che dovevano unirsi ai soldati piemontesi, ma, fatto oggetto di attacchi da parte della stampa, si vide preferire G. Pepe, che ritornava a Napoli dopo ventotto anni di esilio, e in aprile si dimise. Convocato dal re dopo la reazione del 15 maggio, il 26 agosto ebbe il comando delle truppe di terra e di mare per la spedizione in Sicilia, terra da riconquistare dopo l'insurrezione del 12 gennaio e la dichiarazione d'indipendenza da Napoli. L'8 settembre, dopo ripetuti assalti, si impadronì di Messina e delle zone circostanti; cercò quindi di reintrodurre un'ordinaria gestione della giustizia e dell'amministrazione nella zona occupata, operò in favore del commercio, ma dovette difendersi dalle accuse pubblicate dalla stampa estera, secondo cui la città era stata bombardata per otto ore consecutive dopo la resa, il che valse al sovrano l'appellativo di "re bomba". Un successivo armistizio, durato fino al 29 marzo, non ottenne la pacificazione dell'isola, in quanto il governo siciliano respinse le strumentali concessioni costituzionali promesse dal re; il Filangieri perciò continuò ad avanzare verso Palermo, contrastato invano dalle truppe comandate dal generale L. Mierosllawski. Ottenuta la capitolazione, cercò di riportare l'ordine nell'isola, concedendo ad alcuni il perdono, riaprendo tribunali e uffici, riarmando la guardia urbana; ma gli oppositori sottolinearono il saccheggio e l'incendio di Catania, l'opera delle corti marziali, la facilità con cui veniva applicata la pena di morte. Il 15 maggio 1849 il Filangieri entrò a Palermo. Per tale impresa, con decreto 19 luglio 1849, gli fu conferito il titolo di duca di Taormina, con dotazione di 12.000 ducati di rendita e il gran cordone di S. Ferdinando. Egli rimase al governo dell'isola col titolo di luogotenente generale, dedicandosi ad un'intensa opera di ricostruzione, nell'ottica dell'indipendenza amministrativa della Sicilia. Che questo fosse il suo obiettivo venne riconosciuto anche dalla storiografia a lui avversa, che ne rimarcava però ancora una volta l'opportunismo, in quanto, guardandosi bene dall'opporsi all'invadenza del sovrano, il Filangieri finiva per dare alla propria luogotenenza le caratteristiche di una dittatura militare (Finocchiaro, pp. 337-341). Al contrario altri storici, come G. De Sivo, lo accusarono di tolleranza nei confronti delle speranze autonomiste. La luogotenenza del Filangieri incise profondamente sulla vita dell'isola per la riorganizzazione compiuta nei più svariati campi, da quello finanziario a quello scolastico e universitario, a quello commerciale. Da antico murattiano, il Filangieri operò soprattutto sotto il profilo politico-amministrativo, restituendo alla Sicilia l'autonomia persa nel 1837, "cercando di spingere innanzi, benché con scarso successo, le restanti operazioni demaniali, riuscendo anche a conciliare provvisoriamente alla monarchia una frazione della aristocrazia palermitana, irritata e spaventata dalle tendenze democratiche manifestatesi nel 1848" (Romeo, pp. 358 s.). In sostanza, comunque, come sostiene il Romeo, egli, "nonostante qualche platonico atteggiamento costituzionale, era e restava ministro di assolutismo, intimamente assolutista...", per il suo ritenere la paura "elemento di governo coi perversi", per aver ordinato le fucilazioni del 28 genn. 1850 e aver appoggiato gli arbitrii della polizia. Ostacolato dai militari di corte, che lo avevano soprannominato ironicamente Carlo I, e dal ministro di Sicilia a Napoli, il messinese G. Cassisi, il Filangieri si dimise quando venne aperta un'inchiesta, soprattutto contabile, sulla gestione luogotenenziale, i cui risultati furono pubblicati nel 1855. Dopo sei anni di governo dell'isola, il 12 febbr. 1855 gli fu accordato il ritiro e si accettarono anche le sue dimissioni da generale. Il Filangieri tornò quindi a vita privata, stabilendosi a Ischia. Benché non ricoprisse ormai alcun ufficio, era consultato spesso dal re. Morto Ferdinando II il 22 maggio 1859, il nuovo sovrano Francesco II, dopo i tumulti del 7 giugno a Napoli, mentre era in pieno svolgimento la guerra in Lombardia, lo nominò presidente del Consiglio dei ministri e ministro della Guerra. Il Filangieri non fu circondato da uomini da lui scelti, limitandosi ad accettare i nuovi direttori imposti dal re; il suo coinvolgimento era emblematico dell'invecchiamento dei quadri dirigenti borbonici dal momento che ancora operavano nei più alti gradi funzionari e militari formatisi durante il decennio francese. Certamente nel maggio 1859, in un periodo critico, apparve come l'unico dotato dei requisiti di esperienza ed intelligenza necessari a riordinare lo Stato, in quanto individuo abituato ad ispirarsi ad una condotta morale fondamentalmente corretta. Fu considerato l'uomo giusto sia dai circoli liberali napoletani e dai circoli degli esuli e degli emigrati a Torino, sia dagli autonomisti, dal governo francese e da quello piemontese e per certi aspetti dalle stesse forze reazionarie, dal momento che ognuno faceva riferimento ad episodi e fasi diverse della sua vita; e il Filangieri abilmente si era preparato il terreno per una chiamata al ministero dovuta, più che alla decisione di Francesco II, alle circostanze politiche. In tale periodo fece sì che fosse sciolta dal re la legione svizzera e fossero formati altri reggimenti di napoletani (due di fanteria e due di cacciatori) e riuscì ad ottenere, con decreto del 16 giugno 1859, l'abolizione delle liste degli "attendibili", i cui effetti furono però annullati dalla circolare Casella, che prescriveva agli ufficiali di polizia di consultare all'occorrenza registri e liste di sospetti.
In contrasto con la fazione austriacante che faceva capo alla regina madre Maria Teresa, cercò di riallacciare i rapporti con la Francia e con l'Inghilterra, timorosa di una ripresa del murattismo nel Regno. Timore condiviso d'altra parte da C. Cavour, che tentò di allearsi coi Borboni e inviò nel maggio 1859 R. Gabaleo, conte di Salmour, in missione presso il nuovo re. Vengono al Filangieri attribuiti in questo periodo sia il lavoro diplomatico di avvicinamento alla Francia sia le pressioni sul re per la concessione di uno statuto costituzionale. In realtà i passi del Salmour e del rappresentante francese A. Brénier furono "sostenuti solo con molta tiepidezza e dubbia buona fede dal Filangieri" e "assai blandi" furono i suoi accenni al sovrano circa i vantaggi del progetto di statuto redatto da G. Manna, sul quale egli fece solo "cauti sondaggi" (Moscati, 1960, p. 60). Il 5 settembre chiese un permesso per motivi di salute, ma, nonostante ciò, per tutto il periodo successivo influì sulle più importanti decisioni prese dal re. A differenza di coloro che, seguendo il conte di Trani, erano fautori della resistenza ad oltranza, il Filangieri guidava i più moderati. Le dimissioni, offerte ripetutamente da ottobre, furono accettate dal re nel gennaio 1860 e rese pubbliche solo il 10 marzo; in questi due mesi egli continuò dal suo rifugio di Pozzopiano ad esercitare le funzioni di ministro della Guerra con effetti "paralizzanti" sul settore (ibid., 1960, p. 69). Venuto a conoscenza dei disegni di Garibaldi contro il Regno di Napoli, cercò inutilmente di indurre il re ad usare la carta dello statuto per ottenere l'appoggio di Napoleone III. Nella primavera del 1860 fece parte del riordinato Consiglio di Stato, e propugnò una riconquista "morale" della Sicilia. Giunto Garibaldi nell'isola, il Filangieri si oppose alla proposta di A. Nunziante e L. Latour di bombardare Palermo. Non ascoltato dal re, che era sotto l'influsso dei suoi cortigiani, si ritirò a Pozzuoli, rifiutando di prendere il comando delle armate napoletane in Sicilia. Mentre a Napoli il 25 giugno veniva promulgata la costituzione ed era formato il ministero di A. Spinelli, si verificarono disordini, ma il Filangieri non fu più consultato dal re, che ormai diffidava di lui. Era considerato pericoloso anche da L. Romano, che ne consigliò l'allontanamento, da Napoli; l'11 ag. 1860 gli fu perciò concesso di partire con la moglie per Marsiglia. Da qui i due coniugi si recarono nell'isola di Hyères, ove vissero per qualche mese, indi, mentre la moglie tornò a Napoli con le figlie Carolina e Giovanna, il Filangieri col figlio Gaetano si recò a Firenze presso la figlia Teresa. Qui rimase fino al 3 dic. 1862, quando ritornò a Napoli, ove era morta la moglie. Richiamato in attività dai generali A. Lamarmora e M. Fanti nel 1865 per preparare studi sull'esercito, redasse la Composizione dell'esercito attivo dell'Armata d'Italia: studi e progetti che da me furono presentati al ministro della Guerra del Regno d'Italia. Nel 1866 e nei primi mesi del 1867 iniziò una corrispondenza col generale G. S. Pianell sull'ordinamento dell'esercito italiano. Morì per crisi cardiaca nella dimora estiva di San Giorgio a Cremano (prov. di Napoli) il 10 ott. 1867.
Prese parte alla rivoluzione polacca del 1830; nel 1844 fu incaricato dal comitato centrale democratico polacco di dirigere il movimento rivoluzionario nella Polonia prussiana. Arrestato (1846) e condannato all'ergastolo, fu liberato dalla rivoluzione di Berlino del 1848, durante la quale a capo degli insorti polacchi ottenne successi contro le truppe prussiane, ma alla fine fu costretto a capitolare. Passato in Sicilia, fu messo a capo dell'esercito rivoluzionario, ma, ferito (1849), dovette lasciare il comando. Entrato in rapporto nel 1860 con G. Garibaldi e F.A. Kossuth, nel 1861 trasferì a Genova con i fondi del governo italiano una scuola militare polacca, di cui fu a capo per alcuni mesi. Dittatore nella rivoluzione polacca del 1863, dopo la dura repressione da parte dei russi si stabilì in Francia.
Nonostante la caduta di Messina, il problema militare borbonico era tutt'altro che risolto, e ciò si doveva in parte anche alla crisi finanziaria, risultato dell'incapacità del governo d'imporre ai ceti abbienti il peso di tributi straordinari con cui far fronte alle esigenze della preparazione alla guerra. Era un altro aspetto della crisi siciliana rappresentata dall'insufficienza della sua classe dirigente. Gli sforzi del ministro delle Finanze, avvocato Filippo Cordova, per ottenere l'autorizzazione a emettere carta moneta, garantita con la vendita dei beni nazionali, ossia dei beni ecclesiastici di regio patronato, urtò contro una tremenda resistenza passiva; anche perché le terre avrebbero dovuto essere vendute a piccoli lotti, in modo da favorire i minori acquirenti che avrebbero pagato in contanti solo un quarto del prezzo, e il resto in molte rate. Questo significava l'inizio di una rivoluzione nella proprietà terriera siciliana. Al tempo stesso falliva la prospettiva di un prestito all'estero. E solo il Cordova riusciva alla fine a far approvare un prestito forzoso di 500 000 once con emissione delle cedole al prezzo del 65 per cento del valore nominale, all'interesse del 5 per cento. Nell'insieme a metà dicembre, sia nel campo delle finanze che nel campo dell'esercito, ben poco si era fatto. Il 26 dicembre il La Farina leggeva tuttavia, ai Comuni un rapporto ad esaltazione del suo operato. Che egli avesse mostrato più volte buona volontà era innegabile, ma i risultati erano purtroppo scarsi. Intanto il Cordova chiedeva ai Comuni che il prestito forzoso fosse portato a 936 000 once. La legge era approvata; ma il governo dava tuttavia le dimissioni; esse però non erano accolte, e si dimetteva allora il Cordova, stanco dei mille ostruzionismi. Il 15 febbraio si aveva un nuovo ministero, che però non mutava sostanzialmente l'indirizzo della politica siciliana; alla Guerra, dopo vari giorni in cui non s'era trovato chi accettasse tale portafogli, era messo il maggiore Poulet, comandante a Messina di uno dei due battaglioni di camiciotti, giovane ufficiale, volenteroso e capace, ma non all'altezza del tremendo compito. Il nuovo ministero presieduto dal principe di Butera rappresentò la sconfitta definitiva dell'elemento democratico, proprio quando le nubi si facevano più gravi all'orizzonte. Il 2 marzo la Camera a grande maggioranza approvava una proposta di legge che, sotto il pretesto di regolare il diritto di libera associazione ponendo un freno alle richieste di soppressione di circoli politici, stabiliva il divieto ad essi «di deliberare o assumere rappresentanza di popolo». Il mattino del 7 marzo, a Palermo, si avevano per tramite anglo-francese i documenti definiti ironicamente «basi di riconciliazione». La mediazione anglo-francese su cui dì nuovo avevano voluto far assegnamento i dirigenti siciliani si risolveva in un vero e proprio ultimatum: era la guerra. Pochi giorni dopo il ministero del principe di Butera era rimaneggiato: coll'acqua alla gola si dava il ministero della Guerra a Mariano Stabile, e quello della Giustizia a Pasquale Calvi, ossia a due esponenti della corrente democratica. Mariano Stabile era senza dubbio uomo d'alto valore, ma la sua nomina era troppo tardiva. Per di più aveva ben poca fiducia ormai nella possibilità di una resistenza armata tale da fermare e respingere il Filangieri. In realtà ben poco si era davvero concluso dal settembre in poi. Nominalmente l'esercito regolare era cresciuto da 4300 a 8000 e poi a 15 000 uomini, e comprendeva 9 battaglioni di camiciotti che non andavano oltre i 4000 uomini, 2 grossi battaglioni di cacciatori volontari, dei colonnelli Pracanica e Interdonato, che raccoglievano gli eroici superstiti delle squadre che avevano combattuto a Messina, elementi popolani ma ingrossati anche da giovani della borghesia liberale; questi 1800 uomini rappresentavano indubbiamente l'elemento migliore di tutto l'esercito, sebbene male armati; pure erano guardati con sospetto e diffidenza dagli elementi moderati i quali temevano le squadre, anche se eroiche, pel timore che la loro azione sconfinasse presto o tardi nel terreno sociale. V'erano poi i 2 reggimenti di ex militari borbonici, circa 1200 uomini, che rappresentavano tuttavia un elemento veramente di scarto, tali da disonorare l'esercito che li accoglieva. Infine circa 800 uomini assoldati all'estero; in complesso si arrivava a fatica agli 8000 uomini. V'erano inoltre alcuni piccoli gruppi di artiglieri e di truppe del genio. Per arrivare a 15 000 uomini bisognava contare sulla Guardia Nazionale, ma questa era organizzata a modo soltanto a Palermo e a Catania, e con lo scopo non tanto di battersi contro il nemico quanto di proteggere le proprietà dei benestanti. Le squadre vere e proprie erano state sciolte a Palermo fin dal febbraio, e ad onta della buona prova data nei combattimenti di Messina, non si volevano ricostituire e adoperare, sempre perché non si volevano armare i contadini. Quanto ai quadri, c'erano alcuni elementi capaci fra gli ex ufficiali borbonici passati fin dall'inizio alla rivoluzione, soprattutto a Messina; inoltre la lunga guerra aveva formato alcuni ufficiali provenienti dai volontari, che s'erano mostrati buoni o anche ottimi, come i colonnelli Santantonio, Lanza, Interdonato. Ma il gran numero degli ufficiali, e ce n'era circa il triplo del fabbisogno normale calcolato a 30 ogni 1000 soldati, erano rappresentanti in gran parte di quella piccola borghesia famelica e amorale che esprimeva l'elemento negativo dei ceti nuovi di fronte all'egoismo, all'inettitudine e all'impreparazione dei ceti privilegiati dirigenti. Un siffatto esercito era rimasto privo fin quasi all'ultimo d'una direzione suprema, sebbene si ritenesse che lo sforzo del Filangieri al riaprirsi delle ostilità si sarebbe rivolto soprattutto contro Catania. Per contentare i due generali polacco e francese s'era diviso l'esercito in due divisioni con stanza l'una a Catania e l'altra a Palermo; quest'ultima era stata affidata al Trobriand, mentre la prima era agli ordini del Mieroslawski. Ciò però non aveva impedito al vecchio generale francese di abbandonare silenziosamente l'esercito siciliano. Rimaneva dunque a comandarlo il generale polacco.
Questi aveva trentaquattro anni, e aveva iniziato la sua carriera come sottotenente, nel 1831, nella guerra d'indipendenza dei polacchi contro la Russia, passando poi esule in Francia dove era divenuto amico del Buonarroti e di Giuseppe Mazzini, che lo chiamava « ardentissìmo nostro ». Era stato poi tra i fondatori della Giovine Europa, ma soprattutto aveva acquistato fama come scrittore militare, intervenendo nel dibattito che i teorici militari polacchi svolgevano parallelamente a quelli italiani, ma senza alcun collegamento fra le due parti, sopra le possibilità e l'efficienza della guerra insurrezionale popolare. Aveva cominciato come abbiamo visto il Kosciuszko con un opuscolo anonimo dettato nel 1800 al suo segretario J. Pawlikowski: Les polonais petwent'ils reconquérìr leur indépendance? Già trent'anni prima del Bianco, egli sosteneva che la Polonia coi suoi 16 milioni di abitanti avrebbe potuto armare un milione di uomini, mentre le tre potenze spartitrici avrebbero al più potuto impiegare contro di essa 450 000 soldati. La superiorità numerica schiacciante avrebbe compensato il difetto di armi, d'inquadramento e d'organizzazione. Dopo il 1830-31, il problema era riesaminato soprattutto nel senso che la semplice guerra insurrezionale, non appoggiata a un grosso esercito, non sarebbe stata sufficiente: il colonnello Nieszokoc in uno studio, Del sistema di guerra di partigiani proposto all'emigrazione, sosteneva che non si poteva vincere la guerra senza una battaglia campale; ma aggiungeva che i polacchi avevano il dono eccezionale di saper improvvisare truppe ed eserciti. Alle bande partigiane riservava una parte secondaria. In sostanza si riapriva la questione se fosse possibile consumare interi eserciti nemici con la guerriglia, o se fosse indispensabile mettersi anche in grado di affrontarli in campo aperto; e se questa battaglia decisiva si dovesse fare con veri eserciti regolari o anche soltanto con eserciti rivoluzionari improvvisati. La tendenza nei teorici polacchi era ormai quella di escludere che la semplice insurrezione bastasse, e di ammettere invece le grandi possibilità strategiche e tattiche di grossi eserciti improvvisati animati da grande entusiasmo. Or dunque il Mieroslawski aveva dal 1836 criticato aspramente nella sua Histoire de la révolution de Polonie, la tecnica rivoluzionaria allora adottata, e nel 1842-45 era entrato nel dibattito sostenendo e sviluppando le teorie del Nieszokoc. Dunque piena fiducia da parte sua nella guerra di grossi eserciti popolari di massa capaci di affrontare la battaglia in campo aperto, fondandosi sull'entusiasmo e sulla superiorità numerica; e azione integratrice delle bande partigiane su teatri secondari o alle spalle degli eserciti nemici.
Orbene la Sicilia non gli offriva né un grande esercito popolare, né un apprestamento di guerra di bande: la classe dirigente siciliana non voleva né l'una cosa né l'altra. Egli disponeva di 4000 uomini, e solo riuscì ad ottenere che 1800 dell'altra divisione, al comando dei colonnello Ascenso di Santa Rosalia, gli fossero mandati di rinforzo, cosicché finì coll'avere 5800 uomini, mentre 2200 rimanevano dalla parte di Milazzo. La cosa era logica. Contro queste forze il Filangieri disponeva di 24 000 uomini, ma 10 000 dovevano rimanere a presidio di Messina e di Milazzo, cosicché le sue forze mobili si riducevano a 14 000, con l'appoggio della flotta; forze in verità scarse se i siciliani avessero davvero voluto fare, accanto alla guerra regolare, la guerra di bande. Ma egli era pienamente informato dello stato delle cose, e il rischio d'essere tagliato fuori dalla sua base d'operazione dove lasciava pur sempre 10 000 uomini, era si può dire inesistente.
Il 20 marzo il Mieroslawski era a Catania e chiedeva che una parte della Guardia Nazionale cogli elementi più giovani fosse mobilitata; egli intendeva prendere decisamente l'offensiva e poneva il suo Quartier Generale a Bronte, sulle estreme pendici occidentali dell'Etna, e il grosso delle sue forze più avanti a Randazzo, in modo da poter manovrare sia verso il versante jonico, che quello tirrenico. Lasciava però circa 3000 uomini, a Catania, ad Augusta e a Siracusa; essi potevano considerarsi una riserva, ma rappresentavano una riserva comunque troppo lontana e frazionata. Prescrisse poi che all'alba del 29 marzo due sue avanguardie muovessero ai due lati dei monti Peloritani, verso Messina, lungo le due strade costiere; il colonnello Santantonio doveva muovere da Patti per Barcellona, cercando al tempo stesso di propagare l'insurrezione lungo la costa e nelle montagne; dalla parte opposta il Pracanica doveva muovere da Taormina e impadronirsi del capo Sant'Alessio, proseguendo ancora oltre fino a Scaletta, e cercando anch'egli di provocare l'insurrezione alla sua sinistra fra le montagne, cosi da creare una minaccia sul fianco dei napoletani e collegare le bande dei due versanti. Il Santantonio prendeva Barcellona e Castroreale, mentre il Pracanica, col suo battaglione di cacciatori, arrivava ad Ali Terme e l'Interdonato avanzava più lentamente per la montagna. A rinforzo dei due battaglioni giungeva il battaglione estero, col maggiore Marchetti, nonché due compagnie del colonnello Ascenso, il quale avrebbe dovuto poi assumere il comando dei tre battaglioni che rappresentavano il meglio dell'esercito siciliano. Al tempo stesso, il Santantonio aveva ricevuto l'ordine di procedere per la montagna a sostegno della colonna giunta a Scaletta. Ma il Filangieri non stava inerte. All'alba del 30 marzo poneva in movimento le sue truppe lungo la strada consolare verso sud, mentre azioni diversive avrebbero dovuto esser compiute sulla costa settentrionale; e una brigata era imbarcata per cooperare eventualmente dal mare. Il mattino del 31 i napoletani erano avvistati a nord di Ali Terme, e il Pracanica, col quale ancora non si era collegato il colonnello Santantonio e presso il quale non era giunto neppure l'Ascenso, ritenne di dover retrocedere su Taormìna lasciando una compagnia ad Ali e l'Interdonato sulla montagna per trattenere colla minaccia sul fianco l'avanzata dei borbonici. Costoro trovarono ad Ali una prima vigorosa resistenza, e poi si videro il 31 attaccati sul fianco dall'Interdonato, ma superiori come erano di forze contrattaccavano a loro volta e avanzavano per il basso e per l'alto, accompagnando la loro marcia col solito corteo d'incendi e di devastazioni. Il colonnello Ascenso, che avanzava coi suoi 3 battaglioni, si trovava addosso il nemico, mentre l'Interdonato vagava per la montagna, e così 6 battaglioni su 9 di cui disponeva il generalissimo erano battuti e disfatti in azioni slegate, e ricacciati verso i monti. Il Mierosìawski, temendo uno sbarco nemico alle spalle, non aveva voluto muovere con tutte le forze a sostegno dei 3 battaglioni del Pracanica, ma ne aveva mandati poi altri 3 coll'Ascenso, mentre egli rimaneva con gli ultimi 3, sempre in attesa di dover parare il temuto sbarco nemico. La flotta borbonica si apprestava in verità a sbarcare la brigata presso la formidabile posizione di Taormina; ma il generale polacco ritenne che intendesse operare assai più a sud, per tentare dì precludergli la ritirata verso Catania e verso Palermo, e non accorse in soccorso di Taormina ove non erano che due compagnie. I siciliani resistettero alcune ore contro tre battaglioni borbonici, quindi si difesero per le vie, finché la sera del 2 aprile la cittadina era presa e saccheggiata; tutto questo accadeva mentre il Mierosiawski si trovava inattivo a Piedimonte Etneo, a una ventina di chilometri a sud-ovest di Taormina.
In tal modo, in quattro giorni, il grosso dell'esercito siciliano era pienamente battuto, e posizioni naturalmente molto forti erano andate perdute. La guerra regolare era ormai praticamente finita, senza nessun vero, effettivo apporto della guerra di bande. A salvare l'onore siciliano sarebbe valsa ancora la resistenza popolare di Catania e di Palermo, senza tuttavia trovare quei bagliori di disperata energia che avevano illuminato la mirabile resistenza messinese. Il Mieroslawski rimase inerte il 2 aprile; la mattina del 3 seppe che l'Ascenso, coi battaglioni Pracanica, Interdonato e Marchetti e il I leggero, era giunto, ritirandosi per la montagna, a Randazzo. E allora, anziché ordinargli di ridiscendere verso la marina per congiungersi con lui e costituire una grave minaccia sul fianco destro del Filangieri, decideva di portarsi lui, coi suoi 3 battaglioni, a Randazzo. Ma quando si trovò ad aver concentrato quivi le sue forze, a trentadue chilometri dalla marina, e in posizione da poter costituire sempre una minaccia contro il fianco nemico, egli decise di accorrere senz'altro, girando dietro l'Etna, in soccorso di Catania, e ciò sebbene egli dovesse percorrere colle sue affaticate truppe un percorso all'incirca doppio di quello del nemico. Il generale polacco si recava perciò senz'altro a Catania con le truppe meno affaticate, ordinando alle altre di raggiungerlo entro il 6 aprile.
La città di Catania avrebbe potuto divenire il fulcro d'una difesa condotta dalle forze regolari e appoggiata dall'azione delle bande sui fianchi e alle spalle del nemico; e pare che questa fosse l'intenzione o la speranza del Mieroslawski. Il terreno lavico attorno alla città era ricco di per sé di appigli tattici e gli ostacoli erano accresciuti dalla densità della vegetazione e dalle molte costruzioni; al contrario, invece, gli apprestamenti difensivi si riducevano ad alcune barricate a difesa delle vie principali, piuttosto larghe e non ben difendibili, e a due trinceramenti, uno sulla strada consolare proveniente da Taormina, l'altro sulla strada per Palermo. Le artiglierie erano poco numerose; dal lato di mare erano tuttavia piazzate 4 batterie. Per il momento il generale polacco disponeva di un migliaio d'uomini che aveva lasciato a Catania, dei 2000 che aveva tenuto con sé gelosamente in riserva, di un migliaio di guardie nazionali e di un altro migliaio di volontarì della città. I combattenti catanesi erano i soli veramente decisi a battersi, finché non fossero giunti i 4 battaglioni del colonnello Ascenso che riunivano veramente il meglio dell'esercito siciliano. Il Filangieri era sulle prime rimasto alquanto preoccupato della minaccia al suo fianco destro, da Piedimonte Etneo, ma liberato ben presto da tale preoccupazione, all'alba del 5 già si trovava ad Acireale, dove i borbonici ricevevano accoglienze calorose. Da questa cittadina, a quattordici chilometri da Catania, il Filangieri inviava l'ingiunzione d'arrendersi, e ottenuto un netto rifiuto prendeva le disposizioni per l'attacco del giorno successivo, mentre la flotta iniziava senz'altro il bombardamento della città, vigorosamente controbattuta però dalle artiglierie costiere. Il generale borbonico rinunziava però ad attaccare Catania dalla via consolare lungo la marina, e piegava a destra fino ad Aci Santantonio, poscia proseguiva fino a San Giovanni la Punta, per poi volgere decisamente da nord verso sud su Catania, in un lato ove non v'erano, si può dire, apprestamenti difensivi. 14 000 napoletani muovevano contro Catania; a fronteggiarli lungo la direttrice dell'attacco nemico erano 3 piccoli battaglioni siciliani; pure essi resistettero sulle posizioni avanzate fino alle quattordici, quindi cominciarono a ritirarsi verso la città.
Il Mieroslawski contava molto sull'arrivo del colonnello Ascenso, il quale da Paterno, sulla strada etnea, avrebbe dovuto portarsi a Mascalucia, e attaccare di li sul fianco le truppe borboniche coi suoi 3000 uomini. Ma le ore continuavano a passare senza che le truppe dell'Ascenso comparissero, e nel ritirarsi le forze regolari e specialmente il battaglione dei congedati si erano venute disordinando. All'entrata della città, però, le guardie nazionali e i volontari catanesi, uniti ad altri elementi della popolazione, opponevano una resistenza accanita, e il Mieroslawski cercava veramente d'organizzare e dirigere la difesa. Ma verso le sei pomeridiane i borbonici con gli svizzeri in testa prevalevano ormai decisamente; la lotta continuava tuttavia ostinata, per le strade strette e per le case, e s'intensificava la catena d'incendi e d'orrori che già si erano avuti a Messina: non solo i soldati ammazzavano tutti i combattenti presi coll'arma alla mano, e incendiavano le case da cui si era fatto fuoco, ma inferocivano contro donne, vecchi e bambini. E purtroppo il colonnello Ascenso e i suoi 3000 uomini né apparivano alle spalle del nemico, né giungevano comunque in città ad alimentare la difesa. D'altronde l'Ascenso solo a mezzogiorno aveva ricevuto l'ordine di volgere verso Mascalucia, e c'era ormai in lui, vecchio ufficiale borbonico, un senso di sfiducia, e lo stesso pessimismo era, pare, anche nel Pracanica. L'Ascenso e le sue truppe arrivavano a tarda ora a Mascalucia, e quivi non trovavano messi del Mieroslawski, ma solo pochi cittadini smarriti, e notizie catastrofiche sulla lotta in corso a Catania. L'Ascenso non credette perciò di procedere oltre e decise invece di ripiegare verso Palermo.
Così, caduta Catania dopo una eroica difesa non sostenuta dalle bande del contado e neppure da tutte le truppe regolari, cadevano senza opporre resistenza Augusta e Siracusa. Il colonnello Ascenso cercava coi suoi di organizzare una difesa a Castrogiovanni (Enna), nel centro dell'isola, in posizione fortissima, all'interno d'una zona che si poteva ben considerare il naturale ridotto della difesa dell'isola. Purtroppo anche quei 4 battaglioni, fatta eccezione degli intrepidi reduci di Messina dell'Interdonato, in gran parte si disciolsero o retrocessero alla spicciolata su Palermo.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962